James Bond / Daniel Craig

Screenshot (2009)

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Quando penso a James Bond mi vengono in mente subito due cose: la prima è Il Ballo dell’Estate dei Latte e i Suoi Derivati, la seconda è Dr. No che rinchiude il primo James Bond cinematografico, Sean Connery, in una cella con una grata facilmente sfondabile che conduce al pulsante dell’autodistruzione della base super segreta di Dr. No.

Perché quando parli di James Bond pare che il delirio anni ’60 con protagonista Sean Connery non si possa toccare in nessun modo, come se quella performance e quei film ormai appartenenti al cult del genere spy action fossero dei capolavori.

Forse sì, forse hanno segnato una decade lasciando la loro impronta nella storia del cinema commerciale, chiaramente distanti dal thriller intriso di misteri di Hitchcock dei primi ’40, e ancora molto distanti dalle produzioni anni ’60 inglesi, sempre molto autocompiacenti nel rivisitare un ormai passato noir anni ’50, i film di Bond nascono invece come delle vaccate inumane.

Colorati, frizzanti, maschilisti fino al midollo, spesso di cattivo gusto, molto stupidi nello svolgimento e assolutamente surreali nel mettere in scena questo desiderabilmente indesiderabile uomo perfetto, ormai quasi un simbolo inossidabile del gentleman inglese, che sa amare ma anche piantarti uno schiaffo se sei donna e osi addirittura parlare (ricordiamo la scena in treno nel film From Russia with Love). Ma in questo suo essere ingenuamente anni ’60 era ed è estremamente intrattenente, splendido il trucco per camuffarlo da giapponese in You Only Live Twice, estremamente ilare, o ancora la scena del jetpack in Thunderball, che però ci regala un villain con i contro cazzi interpretato splendidamente da Adolfo Celi.

Da Bond alle droghe lisergiche il passo è breve e questo enorme successo ha generato inevitabilmente volontariamente o involontariamente altri prodotti non sempre di cattivo gusto, The Prisoner di Patrick McGoohan ad esempio ricalca i toni poco seri della spia ultra tecnologica ma la cala in un contesto estremamente inquietante e paradossalmente più credibile, ancora Mission: Impossible telefilm americano dei metà anni ’60 con Martin Landau che nella sua pretesta di serietà evita di scadere nell’infantilismo proprio dei primi Bond, o il Casinò Royale del 1967 che vanta un cast d’eccezione e che nella sua totale follia parodistica puro nonsense contestualizza l’ingenuità della nostra amata spia proponendoci un film che assolutamente non si prende sul serio.

E Bond nel tempo non si è mai riuscito a scrollare di dosso questo suo infantilismo, questo giocare con i dispositivi palesemente finti, questo tono da spaccone che va a piangere dalla mamma, questo grosso circo colorato e sinceramente poco credibile c’è sempre, dal primo famoso approccio al grande schermo fino a Die Another Day, delirio del 2002 con Pierce Brosnan (e Rosamund Pike che qui è strabona come l’aria). C’è anche se si contestualizza nel tempo, c’è anche se si guarda per puro divertimento, è li. In da face.


Almeno questo fino al 2006, quando Daniel Craig prende il ruolo dell’immortale spia e lo spettatore si trova davanti a quattro film di Bond che non sono il Bond classico dei tempi passati, ma che finalmente fanno quello che dovevano fare: mettere in scena uno spy action riuscito e in tema con il periodo di gestazione e nascita.

I Bond di Craig sono assolutamente più credibili in quanto a marchingegni e plot e sradicano questa saga da quel tono cartoonesco da prodotto di serie B che si è portata dietro per quasi trent’anni, quindi 2006 e Casinò Royale diretto da Martin Campbell che non è nuovo all’azione e nemmeno a 007 avendo diretto il migliore film con Brosnan, Golden Eye, e altre perle come The Mask of Zorro, film molto divertente.

E questo film di 007 ci mette tutti sull’attenti mostrandoci subito cosa si ha in mente per questo nuovo filone narrativo, cioè prendere 007 buttarlo nel secchio della spazzatura e sfruttarne il simbolo per fare un bel film d’azione. Casinò Royale ci mostra un Bond alla sua prima missione con licenza di uccidere, un Bond fragile nell’intimo ma che si mostra forte in pubblico, che sbaglia nel giudicare gli altri e la situazione e che da solo non sarebbe riuscito a risolvere praticamente nulla di quello che succede. Casinò Royale è una bellissima prova fatta di molte scene di attesa e tensione, come tutta la parte centrale in cui giocano a poker, farcita di scene d’azione girate con sicurezza, vedi l’inseguimento iniziale, ma che non manca di dolcezza e intimità nel dipingere il personaggio femminile di Eva Green o Craig, più vicino al bambino spaventato che ad una super spia. Un film molto più realistico di quello a cui eravamo abituati che mostra l’uomo dietro il tuxedo (ma che cazzo di nome osceno per un vestito è?) prima, e l’invincibile famoso uomo che non deve chiedere mai della pubblicità anni ’90, dopo.

Certo i palazzi che affondano a Venezia nel climax finale potevano anche risparmiarseli, la scena di per sé è anche carina e molto emozionale ma prova ancora un volta che oltre le Alpi non hanno idea di come funzioni Venezia. Non è che i palazzi galleggino con dei palloni! Non ci passa un sottomarino! Accidenti a te The League of Extraordinary Gentlemen.

Un film quindi molto vicino ai suoi amici ben riusciti del 2004 / 06 e giù di li, ci ricorda lo splendido e sottovalutatissimo Mission Impossible 3 (con una Michelle Monaghan in quel modo veniva bene anche il filmino della comunione del cane), 16 Blocks, Domino, Deja Vu (poi si parla del povero Tony Scott), forse film che apparentemente non condividono molto ma che alla fine vivono della solita idea cinetica, di una regia molto simile e di un ritmo serrato facilmente comparabile.


E forse avete ragione, ci stavo per arrivare anche io: Bond nel suo essere così artefatto ha sempre però mantenuto un suo carattere distintivo nel corso degli anni distaccandosi dal puro action distintivo nella decade cinematografica e finendo in un limbo singolare, quasi inidentificabile, adesso si è invece conformato alla massa, ma fortunatamente è andato a conformarsi alla massa del buongusto quando poteva finire sotto l’infausta ala della merdata.


Ma come ci prova Quantum of Solace Never Say Never, mai dire mai. Le gioie del buonissimo Casinò Royale si spengono in fretta alla vista del confuso Quantum of Solace, del 2008 per la regia di Marc Forster.

Quantum of Solace è un film confuso, costruito in modo frammentato e assolutamente poco interessante, ma nel suo essere un prodotto assolutamente poco riuscito ci conferma l’intento di questo nuovo Bond proponendoci per la seconda volta un film action assolutamente moderno, fatto di mille location, molti personaggi e un plot convoluto che però scade nell’incomprensibilità risultando banale.

C’è però da dire che Forster mette in scena una regia descrittiva assolutamente ben riuscita, che consolida il suo lavoro da regista in piccole perle come Stranger Than FictionThe Kite Runner, facendoci capire che non erano state un caso ma confermando il fatto che questo regista si trova assolutamente più a suo agio nella commedia o nel dramma più che dentro un action. Quantum of Solace quindi vive di tanti colori, della gente autoctona della location in cui ci troviamo, del particolare soprammobile nella stanza di albergo, del volto di un vecchio. Un modo di girare molto delicato, molto narrativo, che viene spezzato brutalmente dalle buone scene d’azione che comunque sembrano stridere con il plot e i personaggi che ci troviamo davanti.


2012 e Sam Mendes. Mendes è uno bravo che esordì nel 1999 con American Beauty, un film molto buono ma che secondo me è stato leggermente sopravvalutato, perché questo guaglione con Road to Perdition e Jarhead dimostra di saper fare molto di più di quello che aveva mostrato nel suo esordio, e con Skyfall infatti va nel culo al 90% dei film  d’azione commerciali usciti dal 2000 fino ad oggi.

Skyfall è il primo dei nuovi Bond ad essere più vicino ad un Bond storico di quanto avessero fatto i precedenti due titoli, infatti ritroviamo molti capisaldi del genere: la fortezza nascosta di un villain ambiguo e sfregiato, quasi mostruoso, i servitori dalla doppia faccia di quest’ultimo, la vecchia Aston Martin DB5, l’MI6 preso di mira o compromesso. Tutti aspetti che riportano inevitabilmente a Dr.No, GoldfingerYou Only Live Twice, Live and Let Die, Golden Eye. In cui i villain sono emotivamente disturbati, mostruose creature generate dalla società o dalla stessa agenzia investigativa inglese e dove spesso le faccende personali si mischiano con il lavoro bondiano, come ricordiamo nel bellissimo finale di On Her Majesty’s Secret Service. Ma in Skyfall Bond viene calato in un contesto molto intimo che lo coinvolge con M, il capo dell’MI6 interpretato per la settima volta da Judi Dench. M come una madre, e Bond come un figliol prodigo con i suoi difetti e le sue paure che però torna sempre a casa, fedele e laborioso figlio che rivede in questa fredda e metodica donna l’unico sprazzo di quello che può considerare una famiglia.

In Skyfall infatti il concetto di famiglia è sempre molto presente: Silva (Javer Bardem) è anch’esso un figliol prodigo di M, o almeno quello che ne rimane, Bond ritrova un perduto legame passato con la sua infanzia ed M riconosce in queste figure degenerate gli ultimi affetti di una vita asettica e fredda.

Un film molto intimo sempre in contatto con i suoi personaggi.

Mendes e il suo cast tecnico con questo film fanno un lavoro magistrale soprattutto nella fotografia, ricercata e sempre pronta a virar di tono ogni quando la scena lo richiede, una fotografia molto dinamica che non si spaventa davanti ai toni caldi e pastellosi della Cina, ai monumentali grigi della città abbandonata di Hashima, davanti alla plumbea Londra o alla fredda ma solare Scozia. Vira di tono e ci presenta una vasta rosa di luci e colori che appunto mutano dal caldo al freddo durante lo scorrere del film, come se ci venisse mostrato in un pantone di colori Skyfall inizia vivido e brillante e finisce freddo e scuro. Un lavoro fotografico così in questo genere di prodotti si vede raramente, vi segnalo la bellissima scena di contrasti e silhouette nel grattacielo cinese, che riassume in quattro minuti cosa ci può regalare in questo nuovo millennio un brand mainstream come questo.

Elogio quindi a Roger Deakins che non è nuovo a questo genere di bombe visive avendo lavorato in passato in filmoni del calibro di The Shawshank Redemption, e molto spesso con i Coen: The Man Who Wasn’t There, A Serious Man, The Big Lebowsky. Non nuovo infine nemmeno a Mendes: Jarhead, Revolutionary Road.

Skyfall è un action che se ne vede uno ogni dieci anni. Non sbaglia Adele con la sua canzone di testa, non sbaglia Newman con le musiche, Mendes con la regia, è perfetto nel montaggio e convincente nelle sue scene anche se ricalca molto le mode del film commerciale del periodo mostrandoci molti cliché poco sorprendenti ma che trattati e inseriti in questo contesto tecnico così eccelso si fanno perdonare.


Quindi 2015 e sempre per la regia di Mendes, Spectre. Spectre si prefigge sin da subito di portare quello che si è già visto in Skyfall ad un livello narrativo più complesso, reintroducendo l’iconica figura di uno dei cattivi più conosciuti di Bond, Blofeld, e facendo chiarezza su alcune parti che sono rimaste leggermente nell’ombra durante gli altri tre film. Un lungometraggio quindi molto pretenzioso questo Spectre che mantiene il tono intimo del suo predecessore infilando nel passato di Bond anche la controversa figura di Ernst Stavro Blofeld, che in questo film viene interpretato da Christoph Waltz ma che i più nostalgici ricorderanno come Donald Pleasence, Telly SavallasMax von Sydow (anche se Never Say Never Again non viene contato nella ufficiale timeline di Bond), scelta abbastanza forzata e molto marcata che inevitabilmente fa crollare la credibilità di tutto il baraccone.

Non fraintendetemi: Spectre è un film tecnicamente eccelso, basta guardare il lavoro della seconda unità nello splendido piano sequenza iniziale, e con un potenziale infinito. Ma sorprendentemente non riesce a bucare lo schermo come avevamo già visto in  precedenza, il film rimane anonimo per tutta la sua durata e ci porta in scena un climax davvero difficilmente digeribile, anche da chi cerca un po’ di sano puro divertimento.

Anche qui però i riferimenti ad un Bond del tempo che fu si sprecano: l’ospedale tra le montagne ci ricorda appunto Her Majesty’s Secret Service dove sostituiamo all’inseguimento con sci quello con l’aereo, nuovamente torna il castello del male, ci viene riproposto il meccanismo della tortura da parte del cattivo ai danni di Bond, prima fisica e poi emotiva e Dave Bautista ricopre il ruolo di un cattivo fisico che ci ricorda a tratti il possente Oddjob.

Un film dunque fatto con criterio ma che non ha scene madri, gli inseguimenti sono tutti molto poco dinamici e come nel caso di Roma sembrano una pubblicità per un automobile più che una scena d’azione, Christoph Waltz rimette in scena il brillante piacione dal sorriso beffardo che abbiamo tanto apprezzato in Inglorious Basterds e che abbiamo accettato nell’ottimo Django ma che adesso è diventato una parodia di sé stesso, intrappolata nella recitazione che gli è valsa il meritato Oscar. Un cattivo comunque fin troppo banale che non rappresenta mai un vero pericolo e che anche se inserito nel passato di Bond non ne fa veramente parte finendo per essere più un pretesto che un vero e proprio personaggio.

Quindi bacchettata sulle mani a Spectre che si fa guardare ma che scade nell’anonimo lasciandoci assolutamente con l’amaro in bocca, anche perché dopo Skyfall mi aspettavo un prodotto assolutamente all’altezza di Mendes che con questo Spectre firma, purtroppo, il suo film più anonimo.


Dopo Spectre pare che Craig abbia rifiutato la parte per il quinto film che lo vedrebbe nella parte, anche se IMDB lo riporta come attore in un possibile Bond 25. A questo punto sono curioso di un possibile cambio di attore per vedere se cambiano tono del brand, o dove questo BondCraig ci possa portare adesso che pare concluso questo rarefatto arco narrativo che lega i film con lui come protagonista.


Via basta. Bello sto Bond? Quello con Craig sì, gli altri me li guardo perché mi ci diverto come un matto ma sinceramente li trovo abbastanza ingenui e non riesco mai a prenderli sul serio. Craig ha dato una scossa al brand, ha fatto respirare una saga che vanta ben 24 film ufficiali che fino a Casinò Royale sembravano soffrire tutti di questo infantilismo nella messa in scena, dei gadget volutamente giocattolosi e di pretese che raramente riuscivano a soddisfare. Forse ha la colpa di aver drenato la saga di quel suo tocco magico, di quella luce che la rendeva unica, forse è un Bond inglobato dal modo di fare l’azione attuale. Però nella sua standardizzazione ha svecchiato la baracca rendendo il personaggio meno caricaturale e lo ha reso più fruibile anche per lo spettatore che inciampa in 007 per cercare un po’ di azione e divertimento attuale.

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6 risposte a "James Bond / Daniel Craig"

  1. Devo dire che sono d’accordo. I Bond del passato troppo machi, esagerati. Capisco l’epoca, capisco tutto, però appunto i film non sono dei capolavori come troppi li vogliono far passare.

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