Il mese passato non avevo voglia di scrivere, succede. Succede anche che mi reco al cinema per vedere due nuovi film in cui credevo molto: King Arthur Legend of the Sword, di uno dei registi che preferisco in assoluto, Guy Ritchie, e Pirates of the Caribbean Dead Men Tell No Tales, di due tizi che sinceramente non avevo mai sentito nominare: Joachim Rønning e Espen Sandberg.
E subito una cosa mi è parsa chiara: entrambi i film sono fantasy ed entrambi i film mischiano humor e toni scuri per sfornare quello che alla fine possiamo catalogare come dark fantasy con la voglia di vendersi ad un pubblico vasto e che cerca un intrattenimento facile ma non stupido.
I due film li ho visti a distanza molto breve l’uno dall’altro e, anche se ormai è passato un po’ di tempo dalla loro uscita in sala, mi piaceva spendere due parole su questi lungometraggi a loro modo pregevoli ma che alla fine prendono strade differenti: la promozione per il Re Artù di Ritchie e la bocciatura, anche se non piena, per il nuovo capitolo della saga dei Pirati dei Caraibi.
King Arthur: Legend of the Sword
Guy Ritchie è un regista che si fa riconoscere da metri e metri di distanza, ne riconosci il tono autoriale, riconosci al volo lo stile registico marcato e singolare, e un tempo riconoscevi anche il tipo di film che andava a sfornare. Lock, Stock and Two Smoking Barrels, Snatch, RocknRolla e Revolver sono tutti thriller molto simili con una narrazione su più binari frammentata dal solito montaggio velocizzato, personaggi molto sopra le righe e toni da crime movie smorzati dalla surrealtà di certe situazioni mostrate.
Questa tipologia di film si attacca a Ritchie come una cozza e diventa il suo marchio inequivocabile, marchio assolutamente singolare che ci regala tanti bei film ma che in qualche modo deve rinnovarsi per non cadere nel pozzo della ripetitività.
Tralasciando il film esperimento con Madonna, Swept Away, che mi ha fatto soffrire tanto che parevo impegnato nella Via Crucis con Gesù, e Suspect che sinceramente non ho mai visto e quindi non so di che tratti, Ritchie si accorge della sua ripetitività nella scelta dei temi e delle sceneggiature trattate e nel 2009 ci regala Sherlock Holmes, che poi prosegue nel 2011 con Sherlock Holmes a Game of Shadows, film che adoro e che considero ancora oggi tra i dieci meglio film commerciali post 2000.
Qui Ritchie dimostra di essere un regista a tutto tondo, inizia a lavorare su film che fino ad allora parevano distanti dalla sua visione di cinema e riesce a mantenere il suo tono autoriale che poi rivedremo anche nelle successive opere.
Nel 2015 rimane nel film da spionaggio ed indagine action con The Man from U.N.C.L.E. che sinceramente non ho apprezzato più di tanto. Ho trovato il product placement del film molto invasivo e molto stupido e questa cosa mi ha scocciato non poco. Quest’anno ci regala un altro cambio di stile e di toni narrativi portandoci una rivisitazione in toni oscuri della leggenda di King Arthur e della spada nella roccia, film che non ci saremmo mai aspettati dal nostro Guy e che a suo modo è un piccolo gioiellino.
Con King Arthur da subito ci accorgiamo di una cosa: il tono e le atmosfere del film sono estremamente cupe, dark fantasy nella sua espressione massima. Castelli diroccati edificati su montagne brulle che fanno da casa a demoni inenarrabili, corvi e sciacalli che gravitano attorno ai cadaveri, re corrotti che sono costretti a sacrificare, con immenso dolore, i propri cari a divinità mostruose, laghi sotterranei, foreste che nascondono titaniche fiere che pare provengano da chissà quale abisso.
King Arthur è un film onesto e se ci deve far vedere un cadavere ce lo fa vedere, se ci vuole commuovere lo fa, se ci vuole mostrare un sopruso non si risparmia. Il film è palesemente conscio della mano dietro la macchina da presa, solida e sicura, che riesce a trasmettere emozioni e che (cosa importante nel cinema d’azione commerciale) non si fa intimorire e non si vuole vendere a tutti. La cosa più brillante di questo King Arthur alla fine è questa, è la forza di aver ricevuto il PG-13 (come Iron Man o Captain America) e comunque aver saputo narrarsi come si deve, senza per forza eliminare il sangue o la sofferenza, o i cadaveri o che ne so… uno che vomita o la povertà dilagante per le strade o le puttane massacrate di botte. Rendiamoci conto che anche Captain America: Civil War è un PG-13 eppure è completamente desaturato di violenza e sangue, cose che invece erano IMPORTANTISSIME per veicolare il messaggio della pellicola (ripeto, vedi recensione, che adoro Civil War, mi piace un casino, e che la mia non è una critica ma un semplice dato di fatto).
E qui Ritchie sa che sangue e dolore sono importanti per la pellicola, alla fine i toni oscurissimi non si potevano veicolare in altra maniera, e riesce a gestirli in modo che ci siano e che siano potenti ma che non strabordino nell’esagerazione, nel pacchiano, nel facile, nel provocatoriamente esagerato. Qui Ritchie si dimostra ancora più capace dicendoti: ecco un film che la macchina commerciale riesce a digerire, che lo spettatore riesce a digerire e che comunque sa veicolarsi per come è stato pensato. Senza troppi compromessi.
King Arthur rielabora la storia di Re Artù e dalla leggendaria Camelot calando tutto l’arco narrativo nel fantasy oscuro, uno dei punti chiave del film, proponendoci una cosa che conosciamo tutti ma che si pone come nuova e innovativa. Spesso ti scordi di assistere alla storia della spada nella roccia e ti pare più di guardare il fantasy oscuro orientale che però si rifà all’immaginifico occidentale, quello ben fatto, quello che unisce le architetture romane a quelle elisabettiane, le atmosfere gotiche a quelle fantasy, lo humor di cui il film è intriso soprattutto nelle figure di Arthur (Charles Hunnam) e dei suoi scagnozzi, contrapposto alla serietà e al dolore di Vortigern (Jude Law) indubbiamente il personaggio portabandiera del dark in questa pellicola. Personaggi e scelte stilistiche dunque che mi hanno riportato ad opere come Berserk, Hellsing, Claymore, o a cose che provengono dalla nicchia del videogioco come le serie di Castlevania o Dark Souls. Che poi si rifanno ai padri di questo genere, come Ervin Howard, Phillips Lovecraft o Poe.
Nulla di nuovo sotto il sole quindi per questo King Arthur. Assolutamente no. Ma comunque Ritchie riesce a fare un film che cattura a pieno l’horror lovecraftiano misto al fantasy buio e tremendo, riesce a bilanciare lo humor con le parti più serie, e farcisce tutto con il suo tono registico fatto di narrazione su più binari, montaggi frenetici ma al contempo chiarissimi, stop and go che sottolineano le scene d’azione e narrazione senza fronzoli, semplice ma che colpisce nel segno.
Unica pecca di questo film è forse un uso un po’ troppo invasivo della CGI nelle scene d’azione, uso comunque che mi aspettavo, e un climax forse troppo telefonato farcito da uno scontro davvero eccessivamente videoludico come stampo. Piccole pecche che comunque non affossano questo gioiellino.
Bravo Ritchie! Ti si vole bene. Aspetto Sherlock Holmes 3 in gloria.
King Arthur passato!
Pirates of the Caribbean: Dead Men Tell No Tales
Come King Arthur, anche Pirates of the Caribbean Dead Men Tell No Tales solca i soliti mari, dark fantasy unito allo humor irriverente e in contrasto alla linea narrativa oscura e gravosa presente nel film. Differente il film quindi, ma soliti i toni, lo stile narrativo e soprattutto solito l’intento, cioè quello di portare in sala un prodotto fruibile al grande pubblico ma che comunque riesca a mostrarci la parte oscura del fantasy, difficile da gestire e da calibrare, soprattutto se ti produce Disney e se hai queste maledette voglie di scazzo (ormai parte integrante del cinema commerciale odierno) sempre più esasperate che la saga dei Pirati dei Caraibi ha maturato nel tempo.
E infatti qui si inciampa.
Nello humor.
Sapete cosa ha rotto veramente il cazzo nei Pirati dei Caraibi?
Captain Jack Sparrow.
Sì, Captain Jack Sparrow ha rotto il cazzo.
Nel senso che il personaggio è talmente sopra le righe e talmente assurdo che non ha la possibilità di nessun tipo di sviluppo, escluso per quello che abbiamo già visto nei due film che ci raccontano la storia di Davy Jones, e che comunque è molto blando e si perde una volta che i personaggi di Orlando Bloom e Keira Knightley sono stati accantonati dal brand (vi ricordate l’invaghimento di Sparrow per la bella Elizabeth Swann? Che poi porta alla conseguente rivalità con Turner? Vi ricordate no? Ma devo dirvi tutto io! Riguardate i primi tre film).
Jack Sparrow è vittima di se stesso e della sua ironia che, nel primo film è stata una spassosa novità, nel secondo film ha confermato il suo carattere, nel terzo ha annoiato, nel quarto ha fracassato la fava e in questo quinto installment della saga sbriciola le sacche scrotali che nemmeno uno schiacciasassi di adamantio.
Le solite battute, i soliti tormentoni, le solite facce.
Purtroppo anche Depp è rimasto vittima della sua creatura, che da The Curse of the Black Pearl ha spesso influenzato il suo modo di interpretare i personaggi sopra le righe facendoci venire a noia ancora di più questo character che comunque rimane un colpo di genio davvero notevole, ma che esaurisce la sua carica dopo solo due film, diventando adesso una macchietta noiosa senza scopo.
Inutile dire che tutto il comparto umoristico del film va dietro alla struttura esasperata Jacksparrosa e ci fa venire a noia il fatto che, purtroppo, ci sia un comparto umoristico nel film. Le scene comiche si dilungano per interminabili minuti, le scenette di quello che non capisce le parole dette dall’interlocutore sono estenuanti e onnipresenti, la solita ironia irriverente Marvel, ormai tanto cara alla Disney da grande schermo, invade anche questo brand (che forse è un po’ il precursore di questa moda) e smorza ogni possibile tono semiserio che il film tenta di avere.
Certe volte speri che le scene finiscano per dover smettere di far finta di ridere.
La ghigliottina che volando in aria rischia di uccidere Jack Sparrow è divertente la prima volta, forse la seconda, non la quinta. La surreale scena della banca in cui quattro cavalli sradicano e trascinano per la città un intero edificio (ho capito che è una favola fantasy ma deh… le leggi della meccanica quelle rimangono eh, cazzo) potrebbe essere divertente per un minuto, forse due, non per dieci. E comunque Fast & Furious 5 ci era arrivato prima.
Ti esaspera.
Poi è ovvio che tra la miriade di cazzate che ti propone alcune siano molto simpatiche, anche queste che ho citato potevano essere molto carine se trattate con più metodo, con misura. Questo manca al film, il sapersi dosare. Lo stacco tra la stupidità di certe scene e l’immensa epicità di altre è talmente marcato che alla fine questi due mondi cozzano generando una cacofonia narrativa evidente, già rivista nel brand, carica di battute e tormentoni esasperanti e non così innovativi.
E sapete cosa? Mi dispiace. Sì perché la parte seria con il bellissimo antagonista di Javier Bardem, Salazar, è molto carina! Questo cattivo è più che riuscito, calca le linee dello splendido Barbossa di Geoffrey Rush, è cattivo e circondato da un aura di oscurità tremenda e spaventosa, cattura la scena in modo più che convincente e alla fine mette in campo un antagonista degno della saga e degno di una citazione ad honorem per la lista “Cattivi fighi nel cinema commerciale post 2000”.
Salazar riesce, e con lui riesce tutta la parte dark di questo film fantasy. Peccato che i toni disneyani affossino leggermente tutto il comparto narrativo che si propone come “serio” sbagliando sempre sulle solite cose: i cattivi che ammazzano solo e sempre comprimari per far vedere che sono stronzi, e che alla fine non risolvono mai nulla e non rappresentano mai una vera minaccia per i protagonisti della storia. I protagonisti che quando combattono stordiscono e basta gli avversari, anche se pure loro sono pirati e pur se col cuore tenero comunque non dovrebbero farsi scrupoli nell’accoppare una guardia. Ci sono i morti ma manca il sangue, manca il cadavere, il morto è sempre fuori campo ed è sempre condito in modo che non sia così amaro vederlo.
E’ ovvio che essendo Disney queste cose ci sarebbero state, però me ne dispiaccio perché questa scelta di edulcorare all’inverosimile la violenza quando comunque la mostri senza remore (sono come quei porno giapponesi che censurano le parti intime dei soggetti… cioè… Hai fatto trenta… no? Ormai so’ lì che trombano. E’ comunque tardi per mettermici il bollino) la trovo una scelta puerile. Trattamela in modo differente. Dipingimela in modo che non sia troppo truce, ma cazzo, un morto è un morto. Cosa che si aggrava quando tenti di mettermi in scena dei toni così cupi e un cattivo così spietato e al contempo drammatico e triste.
Disney doveva tornare alla Maledizione della Prima luna, dove il sangue c’era e i cadaveri cadevano in terra trafitti dalle lame dei pirati, dove Jack e Barbossa non erano delle macchiette di loro stessi e dove la comicità era relegata al personaggio surreale di turno, a qualche comprimario forse, e non esasperata e dilagante per tutto il film.
Pirates of the Caribbean Dead Men Tell No Tales finisce per tirarsi la zappa sui piedi quando tenta di dare una degna chiusura ad alcuni personaggi ormai storici, personaggi che una chiusura l’avevano avuta ma che era troppo facile non tirare in ballo un’ultima volta per cercare di rendere carico e drammatico un film che invece sfocia nella solita epica spicciola fatta di morti facili e poco sensate e riappacificamenti non necessari. E qui troviamo Barbossa che si sacrifica per una figlia mai vista né sentita, Will Turner che si trova libero dalla maledizione dell’Olandese Volante e che può riabbracciare la sua amata Elizabeth Swann (nel film sono passati tipo venticinque anni e il personaggio di Keira è invecchiato di dieci. Che culo, Will. Tornavi sulla terra c’era una di cinquantacinque anni, e invece ti ribecchi la figa di ventuno. Te possino…), figli e amanti mai viste che riemergono dal limbo narrativo.
In questo frangente questo Dead Men Tell No Tales mi ha ricordato le telenovelas che guarda la mi mamma, con i personaggi improbabili che hanno settecentomila sottotrame inutili che poi si risolvono alla cazzo di cane, o quei telefilm degli anni novanta dove spuntava sempre l’ex fidanzato portatore di guai o la mamma perduta anni or sono.
Una scelta che ho trovato irrispettosa verso chi ama quei personaggi e verso un film che comunque può anche risultare godibile, ma che proprio non vuole esserlo.
Pirates of the Caribbean Dead Men Tell No Tales, bocciato. Peccato perché molte cose sono riuscite come Salazar appunto, o il mistero dietro l’artefatto che cercano nel film. Molte scene soprattutto dalla parte del dark fantasy sono anche estremamente azzeccate, vedi la nave che divora gli altri vascelli, lo stretto con le rocce aguzze che intrappola le navi, le fortezze a picco sul mare. Ma il film, anche se per una buona parte risulta godibile, finisce nell’epica spicciola e devasta i suoi personaggi con pretesti campati in aria dal nulla, stufa con una ridondanza di battute e battutine che davvero non se ne pole più e alla fine ci scivola sulla pelle senza nemmeno farci venire i brividi.
Due ultime cose:
- Jack Sparrow giovane potevate anche farlo prendendo un attore giovane simile a Depp. Avete rotto il cazzo con questa moda di fare gli attori in CGI quando non ce n’è bisogno! Nessuno ha visto Indiana Jones e l’ultima crociata?
- Le scene post credit hanno rotto il cazzo. Relegatele alla serie Marvel e siamo felici, non esportatele in tutto quello che fate, maledetta Disney di merda. Avete trivializzato una cosa carina. E comunque Davy Jones è morto! ‘Sto Pirati dei Caraibi sembra Beautiful dove tornano in vita i personaggi! Diventa Dragonball così signori. E che cazzo. Non banalizzate tutto. Qualcosa lasciatelo stare dove deve stare.
Ecco qui! Finita la doppia recensione nel senso che ho recensito due film vicini come toni ed atmosfere, e che sono usciti in sala anche molto vicini tra di loro. Come detto mi scuso del ritardo ma oh, mi ha fatto voglia di scrivere adesso. Accontentatevi.
Addio.
Visto anche io sto King Arthur, giusto ora! Carino, un solido fantasy, e per una volta un film di Ritchie dove si capisce cosa dicono gli attori!
Peccato per il protagonista, che ha un tono molto monotono per tutto il film, e per la troppa CGI: disconnetto il cervello quando ci sono sti combattimenti lunghissimi in cui tutto è CGI e mi immagino il povero attore davanti a un green screen che prova a immaginarsi i mostroni enormi intorno a lui… :–/
Però rimane un film piacevole da vedere, con delle belle immagini e un bel tono!
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