La Forma dell’Acqua – una fiaba contemporanea

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If I spoke about it – if I did – what would I tell you? I wonder.
Would I tell you about the time? It happened a long time ago, it seems. In the last days of a fair prince’s reign.
Or would I tell you about the place? A small city near the coast, but far from everything else.
Or, I don’t know… Would I tell you about her? The princess without voice.
Or perhaps I would just warn you, about the truth of these facts. And the tale of love and loss. And the monster, who tried to destroy it all.

La Forma Dell’Acqua è il decimo film di Guillermo Del Toro, forse il mio regista “di genere” preferito. Nonostante questo mi sono avvicinato al film con un po’ di dubbi. Da una parte c’era la mia adorazione per il regista (di cui ho amato pressochè tutto come un fan-boy affezionato) che mi dava un’attesa speranzosa, mentre dall’altra il successo contemporaneamente di critica e pubblico mi facevano temere il peggio in quanto a ulteriore commercialità e banalizzazione dei temi cari al cineasta messicano. Quello che temevo cioè, era una continuità di stile e livello con gli ultimi due lavori, Pacific Rim (2013) e Crimson Peak (2015), i quali, nonostante la bellezza estetica devastante (soprattutto del primo), mi erano sembrati parecchio più superficiali rispetto alle opere precedenti.

Non mi dilungo su Guillermo Del Toro, di cui vorrei parlare anche in altri post, ma vorrei giusto accennare all’aspetto che mi piace tanto del suo cinema: la sua capacità di trasportare i temi propri del fantasy (i fantasmi come forma persistente di un ricordo del passato, i mostri come allegoria dell’unicità o della diversità, l’immaginazione che si fonde alla realtà e la trasfigura) in realtà storiche, mescolando il reale con una fantasia che ci fornisce chiavi di lettura della realtà diverse da quelle evidenti. Del Toro ha creato un immaginario innovativo e consistente ed ha di fatto reinventato il concetto di favola contemporanea al cinema negli anni 20002010.

Passando a La Forma Dell’Acqua, il regista ha detto di considerarlo la sua opera più matura e più personale: dopo aver passato i primi nove film a narrare storie e illusioni della sua giovinezza, adesso ha deciso di ispirarsi alla sua immaginazione da adulto, mettendo per la prima volta una storia d’amore al centro di un suo film e parlando apertamente di politica attuale e di sessualità, pur rimanendo nel suo genere di favola dark.

Se dico c’era una volta nel 1962“, specifica Del Toro, “diventa una favola per tempi difficili. La gente può quindi abbassare la guardia un po’ di più e ascoltare i personaggi e parlare del problema, piuttosto che delle circostanze.

La Forma Dell’Acqua si apre con una voce narrante che ci svela già molto di quello che andremo a vedere (l’incipit di questo post). I toni sono quelli della favola, ambientata in una piccola città sulla costa, Baltimora, nell’America di tanto tempo fa, i primi anni Sessanta, in piena Guerra Fredda. La principessa senza voce è Elisa Esposito (Sally Hawkins) una ragazza orfana (trovata “vicino al fiume, nell’acqua“), muta dalla nascita con cicatrici sul collo che suggeriscono fin dall’inizio un’interpretazione alternativa del suo silenzio. Elisa vive in un umido appartamento sopra il cinema Orpheum con il suo vicino di casa, Giles (Richard Jenkins), un artista omosessuale di mezza età che passa le sue giornate a disegnare, guardare cabaret alla TV e sognare un amore romantico impossibile.

Elisa lavora come addetta alle pulizie al centro di ricerca Occam, in turno con Zelda (Octavia Spencer), una loquace signora di colore con cui ha un rapporto molto stretto e che sa interpretare alla perfezione il suo linguaggio dei segni.

L’arrivo al centro di ricerca di una creatura anfibia antropomorfa dal sudamerica (dove era venerato dalle tribù locali come un dio) rompe la routine: mentre il ricercatore/spia russa Dr Hoffstetler (Michael Stuhlbarg) vuole studiare il Mostro e la sua diversità, il cattivissimo agente della sicurezza Strickland (Michael Shannon) vede in lui solo un abominio che deve essere vivisezionato e distrutto. Anche Elisa è fin da subito interessata alla creatura, non soltanto per un senso di curiosità, ma per una vera e propria attrazione fisica e affettiva in qualche modo veicolata dall’acqua e dalla musica. Evito ulteriori spoiler: tra i due si instaurerà un rapporto sentimentale che porterà al tentativo di liberazione del Mostro e allo sviluppo del film prima verso i toni del thriller/spy-movie nella sua parte centrale, per tornare poi ai toni da favola propri della visione di Del Toro in un finale come al solito meraviglioso e dalla duplice chiave di lettura “realtà contro immaginazione“.

Già alla prima visione, il film mi ha tolto ogni dubbio. Funziona tutto benissimo. Se la sceneggiatura è oltremodo semplice (al limite del trito e già visto), in mano a Del Toro la banalità viene trasfigurata in qualcosa di poetico e nuovo. C’è sempre un significato ulteriore, un mondo ulteriore, una poesia inclusa in ogni breve dialogo e in ogni scena muta, in ogni sguardo dei protagonisti.

Il film è una parabola umana perfetta, che si lancia contro il potere, il conformismo, la xenofobia, insomma contro la società americana contemporanea. Come in ogni pellicola di Del Toro i protagonisti sono persone singolari, diverse dalla massa, ma mai come in questo caso si era trattato di persone ai margini, in un certo senso Mostri a loro volta per il benpensante medio. L’omosessuale di mezz’età autorecluso e discriminato sul lavoro e nella vita sentimentale, la donna lavoratrice afroamericana ignorata anche dal marito, la trovatella muta: è una galleria di freak per la società mainstream del 1962, quasi quanto lo è il mezzo-pesce dell’Amazzonia. Ma la domanda che il regista pone allo spettatore è: quanti di questi personaggi sarebbero facilmente accettati nella società mainstream del 2017?

Anche il mutismo di Elisa è un simbolo: gli emarginati sono isolati, senza voce, poco importa che Elisa sia muta per scelta o per disabilità. Vista la sua posizione sociale, anche se parlasse chi sarebbe disposto ad ascoltarla? Con ancora maggiore forza si estrinsecano il concetto di amore privo di confini di razza/genere/omologazione e l’apologia della curiosità e tolleranza sessuale.

Contro questo gruppo di outsiders si erge la figura di Strickland, personalizzazione del maschio bianco trionfatore nel pieno del sogno americano: bigotto, violento, razzista, superficiale. Man mano che gli emarginati portano avanti il loro piano per liberare il Mostro dal centro di ricerca e riescono a sconfiggere Strickland, si assiste a un progressivo disgregarsi del sogno americano stesso dal suo interno (le dita che marciscono), fino al mondo esterno (la distruzione della Cadillac), per arrivare alla sua completa distruzione nell’ammissione della superiorità del diverso (“tu sei un Dio“).

La bellezza della pellicola sta sì nei suoi significati, ma anche nella pura estetica. I toni di verde e blu che dominano danno un’atmosfera acquea e umida ad ogni scena, dal centro di ricerca alla casa di Elisa che sembra quasi ricoperta di scaglie di pesce. La fotografia è meravigliosa, Del Toro ha impiegato mesi a scegliere i singoli toni per ogni scena, ed ha affermato la presenza di un vero e proprio codice-colore:

“Il mondo di Elisa: ciano e blu (sott’acqua). Le case degli altri (Giles, Zelda, Strickland) in toni dorati, ambra e colori caldi (giorno/aria). Rosso per cinema, vita e amore. Verde: tutto quello che riguarda il futuro (torte, auto, laboratori, uniformi nel lab, gelatine, etc).”

La computer grafica, per un film fantasy, è ridotta ai minimi termini. L’utilizzo di espedienti tecnici “classici” per le scene sott’acqua (il dry-for-wet, ad esempio, con oggetti sospesi a mezz’aria con cavi, ventole per far fluttuare i capelli/vestiti, e rallenty per dare l’idea del galleggiamento) ha ridotto le spese, tanto che il film è risultato relativamente economico, visto il meraviglioso risultato estetico finale della messa in scena.

La regia è come sempre ottima (senza entrare in dettagli per critici veri ed addetti ai lavori e che quindi non mi competono), con movimenti di macchina continui, utilizzo di dolly e steadycam che perfezionano il ritmo del film.

La colonna sonora di Alexandre Desplat va che è una bellezza e confeziona una cornice perfetta di sonorità anni 60, soprattutto per le parti necessariamente mute tra Elisa e il Mostro.

L‘intento metacinematografico del film è interessante allo stesso modo e ci regala varie chicche. La Forma Dell’Acqua parte dall’idea di Del Toro e Daniel Kraus di proporre un lieto fine alla storia d’amore de Il Mostro Della Laguna Nera (1954), film molto caro al regista messicano. Il mostro di Del Toro ha in effetti fattezze molto simili a quelle della creatura del film degli anni ’50, oltre a provenire dalla giungla amazzonica (cioè lo stesso luogo dove era ambientato il film di Jack Arnold). Il film di Del Toro è inoltre a tutti gli effetti una riscrittura de La Bella E La Bestia, mentre anche il cinema classico americano ha la sua parte: dal musical, con il ballo di Fred Astaire e Ginger Rogers da Seguendo La Flotta (1936), al biblico, con La Storia di Ruth (1960) proiettato nel cinema sotto i piedi di Elisa. La sala, a cui si passa ripetutamente con piani sequenza che attraversano il pavimento/tetto, è il simbolo più chiaro della volontà metacinematografica dell’autore (ancora più chiaro se teniamo conto del fatto che la prima del film durante il Festival del Cinema di Toronto è stata mandata proprio nello stesso cinema in cui le scene del cinema sono state girate, l’Elgin, così che gli spettatori potevano vedere sullo schermo la stessa sala dove erano seduti).

Il cast è spettacolare e diretto splendidamente. Nella sua follia per il dettaglio, Del Toro ha scritto oltre quaranta pagine di background per ognuno dei personaggi maggiori, per aiutare gli attori nell’interpretazione, pur lasciando ognuno di loro libero di utilizzarle o meno (Jenkins ad esempio ha espressamente dichiarato di averle ignorate essendo interessato solo a quello che succedeva nella pellicola, mentre Stuhlbarg pare esserne stato entusiasta).

Sally Hawkins è stata scelta come rappresentante di una bellezza femminile singolare “non da pubblicità dei profumi”, ma “luminosa, quasi magica, eterea”, e regala una performance elegantissima e sensuale, credibile nel suo ruolo “classico” (sostiene di aver passato ore a studiare Chaplin, Laurel & Hardy, Keaton e la Hepburn) e nella sua storia d’amore con il Mostro.

La creatura è interpretata da Doug Jones, specialista nel settore (ha lavorato praticamente in ogni film di Del Toro, impersonando sempre creature mostruose – tra tutte l’Abe Sapien di Hellboy, che peraltro ha vari punti fisici in comune con l’anfibio di questa pellicola).

Anche gli altri attori sono eccezionali, anche se più accennati: dalla cattiveria “umana” di Shannon che sprofonda nel dolore, all’empatia della Spencer, alla sensuale ricerca di amore di Jenkins, all’elegante e gentile dottore di Stuhlbarg (nonostante tutta la storyline dei russi sia un po’ una macchietta).

Tirando le somme, La Forma Dell’Acqua si propone come una favola contemporanea che parla prima di tutto di amore, ma anche di società e di tolleranza, di sessualità e di xenofobia. Ancora una volta siamo davanti alla riprova che anche uno script semplice, se dato in mano ad un regista bravo e con idee precise, può diventare un ottimo film senza l’abuso di effetti speciali e spettacolarità a buon mercato, ma con equilibrio e leggerezza.

Non è un film perfetto, certo. Rimangono qualche buco narrativo (in piena Guerra Fredda il centro di ricerca Occam ha lo stesso livello di sicurezza del Conad di Venturina), una non proprio perfetta riuscita dei personaggi minori (i russi su tutti) e della parte “spy-movie” in generale, che forse non era proprio necessaria. 

Sono comunque sbavature, il consenso unanime che questa pellicola ha avuto sia come critica (su tutte la vittoria del Leone d’Oro a Venezia nel 2017, vedremo presto come si comporterà agli Oscar), sia al botteghino, è strameritata. Sono tutti entusiasti. In questo caso sono contento di accodarmi alla massa.


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