Papillon (1973)

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Ovvero l’instancabile sete di libertà dell’uomo.

In una pellicola che ormai conta 45 primavere di Franklin J. Schaffner (Il Pianeta delle Scimmie, Patton), sceneggiata da Dalton Trumbo (Vacanze Romane, Spartacus) e Lorenzo Semple Jr. (I tre giorni del CondorBatman – la serie tv degli anni ’60), è questo tema il vero protagonista. E per me è già abbastanza per riflettere un po’.

Papillon è il soprannome di Henri Charriére (Steve McQueen), parigino condannato all’ergastolo per omicidio, da scontare ai lavori forzati nella colonia penale caraibica della Guiana Francese. Il protagonista porta infatti una farfalla tatuata sul petto, già di per sé simbolo di libertà e di effimera brevità della vita. Durante la degenza, Papillon inizierà un rapporto dapprima di convenienza e poi di amicizia con il falsario Louis Dega (Dustin Hoffman), il quale lo aiuterà più volte nei suoi tentativi di fuga.
Il film, uscito nel 1973, è l’adattamento delle memorie carcerarie dello stesso Henri Charriére, scrittore francese che pare sia stato davvero prigioniero nelle colonie penali francesi e sia riuscito ad evaderne (o forse Charriére romanzò molto la propria storia, ma poco importa). Il libro fu un best-seller alla fine degli anni ’60 e parimenti enorme successo al botteghino ebbe il film, grazie all’alto budget e il co-starring di due attori del calibro di McQueen e Hoffman, la cui convivenza sul set, pare, non fu proprio delle più facili. La pellicola ottenne invece un’accoglienza tiepida da parte della critica, che condannò al tempo sia una sceneggiatura considerata noiosa e frammentaria sia la performance dei due protagonisti (McQueen ottenne comunque la nomination per il Golden Globe come migliore attore).

In effetti siamo di fronte a un blockbuster dell’epoca: alto budget, azione e spettacolarità, a volte a spese di profondità dei dialoghi e di approfondimento dei rapporti tra i personaggi. La storia stessa appare frammentata nei vari episodi di tentativi di fuga del protagonista e nella loro frustrazione seguita da punizioni esemplari.

Il film è anche un vademecum per le future pellicole sulla prigionia: corruzione, tentativi di evasione, amicizia, odio, tentativi di stupro, lavori forzati, condanna a morte, fame, isolamento, buio, solitudine, indifferenza. C’è un po’ di tutto. Tutti temi che ritorneranno nel cinema successivo e, sicuramente, verranno trattati con maggiore profondità e completezza in altre pellicole (da Dead man walking a Le ali della libertà, Hunger, Il miglio verde, Cesare deve morire e tante altre opere sulla prigionia).

Nondimeno, nonostante un po’ di superficialità, questo Papillon mi ha colpito con tanta, tanta forza.

Non ci sono condanne morali o giudizi di sorta, non ci importa che Charriére sia colpevole o meno: lui si professa innocente, ma la questione non verrà mai approfondita. Quello che importa è la privazione di libertà senza speranza e la cocciuta volontà dell’uomo che accetta anche di passare anni in una cella buia in isolamento o di rischiare la morte pur di liberarsi dall’oppressione. Nella parte centrale della pellicola, con un Papillon allo stremo dopo due anni di isolamento e fame, un incubo lo perseguita: una giuria lo condanna a morte per aver sprecato la sua vita. Una sola parola riecheggia nella testa del condannato: “Guilty, guilty, guilty…”

L’ossessione per la libertà di Papillon è resa splendidamente dall’esuberanza fisica di un McQueen sempre potente e presente sulla scena. Famoso è il suo rifiuto di usare stuntmen nella scena del tuffo dalla scogliera. Al suo opposto recita Dustin Hoffman: delicato il suo debole ma non sprovveduto Dega, ispirato pare alla figura di Dalton Trumbo, che in quegli anni stava perdendo la sua lotta contro la malattia. Tra i due galeotti si instaurerà un’amicizia tra persone diverse, mai retorica o melensa. Ci si vede tutto il pragmatismo necessario alla sopravvivenza, seppure condito da un sentimento che resta sopito in genere ma traspare in momenti precisi (la prima volta che Papillon salva Dega e il secondo quasi non si capacita del perché qualcuno abbia potuto mettere a repentaglio la propria vita per salvarlo, la commozione per il ritorno di Papillon dal primo isolamento, l’imbarazzo un po’ demente della ricongiunzione sull’Isola del Diavolo, la separazione finale). Papillon è un personaggio molto semplice, un eroe granitico che non cambia nei propositi dall’inizio alla fine della pellicola. Forte ma non infallibile, i suoi tentativi di fuga verranno via via frustrati per colpa di altri o sua o della sfortuna. A lui si aggrappano tutti gli altri, e in particolare Dega, più debole nel fisico e nel carattere, che dapprima cercherà di comprare la libertà, poi cercherà di ottenerla fuggendo, poi si arrenderà al fato avverso e chinerà il capo di fronte a un rischio totale, al salto nel buio.

It seems so desperate. You think it will work?” dice Dega a Papillon nella scena finale. “Does it matter?” risponderà un vecchio e invasato Charriére di fronte a un tuffo di vari metri da una scogliera nelle acque agitate intorno all’Isola del Diavolo. Cercherà di arrivare a nuoto sul continente, Papillon, aggrappato solo a una zattera di fortuna ottenuta da un sacco di noci di cocco. Poco interessa la chiosa finale che ci narra come andrà a finire la storia, l’ultima immagine che resta della titanica lotta per la libertà di un uomo imprigionato (forse ingiustamente) è quella di Papillon aggrappato alla zattera (sotto cui tra l’altro si vede abbastanza bene l’ombra di un sub), in balia della corrente, che con gli occhi invasati urla al cielo: “Hey you bastards, I’m still here!”

P.S. mea culpa, non ho visto il remake appena uscito, quindi evito qualunque confronto o commento in merito. Mi ripropongo di vederlo e scriverci due righe in futuro.

Au revoir.

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2 risposte a "Papillon (1973)"

    1. E’ sicuramente un classico. Ho letto pareri molto discordanti sul remake, ma sono curioso di vedere quale folgorante idea innovativa li ha spinti a produrlo e girarlo. Magari merita.

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