Heavy Traffic: recensione del film

Heavy Traffic è il secondo film scritto e diretto da Ralph Bakshi, uscito nel 1973 esattamente un anno dopo il suo esordio col botto di Fritz the Cat (Fritz il gatto). Come per il precedente, il regista nato a Haifa usò una tecnica mista di animazione e girato con attori in carne ed ossa, e ancora una volta il suo target era un pubblico adulto.

Quella di Bakshi fu una scelta coraggiosa (da buon regista indipendente qual’era) perché al tempo i film d’animazione erano esclusivamente diretti ai giovanissimi, ma la scommessa pagó perché sia il suo esordio che questa sua seconda opera ebbero un successo notevole. E come è invecchiato Heavy Traffic?

Bene, ve lo anticipo, ma dovete essere pronti ad assistere ad un bel po’ di sperimentazione psichedelica che più anni Settanta di così non potrebbe essere. Diciamo che Bakshi non accompagna esattamente per mano i suoi spettatori, anzi li getta di peso in una New York buia e piena di personaggi negativi tanto che all’inizio è facile sentirsi spaesati. Ci troviamo infatti persi nelle fantasie del giovane Michael Corleone (interpretato dallo sfortunato Joseph Kaufmann, morto a soli 29 anni in un incidente aereo) che durante una partita di flipper immagina storie fantastiche su suo padre Angelo (Frank DeKova), una specie di proto-Homer Simpson, sua madre Ida (Terri Haven), e sulla bella Carole (Beverly Hope Atkinson), una cameriera afroamericana di cui Michael è innamorato.

Queste storie sono popolate da mafiosi, persone violente, prostitute, poliziotti corrotti e criminali di basso rango che si muovono nei bassifondi di una New York sporca, brutta, per niente accogliente. Si nota l’influenza della Nuova Hollywood, movimento artistico cominciato sul finire degli anni Sessanta che cominciò a mostrare personaggi e luoghi molto diversi da quelli a cui ci avevano abituato fino ad allora le grandi produzioni cinematografiche statunitensi (Easy Riders di Dennis Hopper era uscito nel 1969, per dire).

E guardando al post-Bakshi, io noto una certa vicinanza al cinema di un altro regista indipendente che adoro, Jim Jarmusch. Il dolly che segue di lato Michael che cammina lungo il marciapiede lo si ritrova in tutti i primi film di Jarmusch, per dire, e l’uso martellante delle musiche è anch’esso molto simile all’idea di colonna sonora delle prime opere del regista di Cuyahoga Falls.

In Heavy Traffic, grazie all’uso dell’animazione, Bakshi riesce a dare ad ogni scena un tono differente, sempre surreale, a volte cinico (penso agli spaghetti mangiati dal Padrino), a volte più divertente, e spesso decisamente artistico (come quando riprende il famoso dipinto Nighthawks di Hopper, per esempio). Dimenticatevi il politically correct visto che facendo interagire tra loro italo americani, ebrei e afroamericani Bakshi non ha davvero freni, addirittura c’è un bianco che chiama un afroamericano “nigger” (e ricordo sempre come Chris Rock ci abbia spiegato quando e come la cosa sia accettabile), e immergetevi in questa New York degli anni Settanta vista da un artista visionario e geniale, non ve ne pentirete. Ciao! 


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