En los márgenes: recensione del film

En los márgenes (letteralmente: Ai margini) è un film del 2022 scritto da Olga Rodríguez e Juan Diego Botto, e rappresenta l’esordio alla regia cinematografica per quest’ultimo (attore navigato e già regista teatrale). Si tratta di un passion project a cui Botto ha lavorato per vari anni, sin da quando gli venne l’ispirazione per il copione alla luce dei fatti di cronaca legati alla crisi economica spagnola (e non solo) del 2009-2014.

Per come la racconta nelle interviste, l’amica Penélope Cruz gli chiese di scrivere qualcosa sulla gelosia per lavorare insieme, e lui venne fuori con una scena di un litigio di una coppia la sera prima l’arrivo della polizia per sfrattarli di casa. In pratica, la gelosia era in secondo piano, e quello che interessava a Botto era parlare delle nefaste conseguenze della crisi economica sui settori più deboli della nostra società. È lì che nacque un processo di ricerca del regista e della sua amica Penélope che li portò a parlare con associazioni di vicini che lottavano contro gli sfratti, con avvocati impegnati nel sociale, con lavoratori dei servizi sociali, e via dicendo.

Tutto questo lavoro si riflette nel film in cui vediamo personaggi fittizi mettere in scena situazioni realmente vissute, ed è evidente come nelle scene delle associazioni di vicini non siano stati usati attori professionisti ma persone che effettivamente avevano vissuto sulla propria pelle ciò che raccontano.

Il film, infatti, si svolge in meno di ventiquattro ore e narra quattro storie intrecciate labilmente tra loro. L’avvocato Rafa (Luis Tosar) non riesce a staccare dal lavoro, che consiste nell’aiutare le persone al margine della società, e per questo rischia di perdere la ragazza incinta Helena (Aixa Villagràn) e il suo figliastro Raúl (Christian Checa) non lo considera come un padre. Lo seguiamo mentre prova a far sì che una giovane extracomunitaria (Somaya Taoufiki) non perda la custodia della figlia (Salma Naim Annaassi) e mentre partecipa a picchetti anti-sfratto. È lì che troviamo Azucena (Penélope Cruz), preoccupata di finire per strada col figlioletto Diego (Ame Aneiros), mentre l’orgoglioso marito Manuel (Juan Diego Botto) non le può dare alcuna soluzione alternativa. Nel frattempo, quello, lavorando in nero, ha conosciuto Germán (Font García), il cui fallimento ha fatto arrivare un’ingiunzione di sfratto all’anziana madre Teodora (Adelfa Calvo).

In pratica, si tratta di una versione iberica di I, Daniel Blake (Io, Daniel Blake, 2016) di Ken Loach, in cui le storie sono plurime per dare la possibilità a Botto di raccontare quante più problematiche possibili legate al precariato e all’appartenenza alle frange più vulnerabili della società. La vulnerabilità, poi, è su più livelli, perché in ognuna di queste storie ci sono figlie e figli che soffrono ancora più degli adulti, alimentando sensi di colpa e creando corto circuiti emotivi a più non posso.

Ecco, forse uno dei problemi del film è proprio che vuole raccontare troppi drammi e troppe disgrazie allo stesso tempo. Per quanto realistici possano essere i personaggi (non tutti: il figliastro di Rafa al principio del film sembra forzatamente distaccato dal mondo, anche se essendo adolescente forse la cosa ci sta pure), sembra che il film ci voglia far piangere a tutti i costi con una collezione di naufragi umani fin troppo vasta. Ci riesce, naturalmente, io ho pianto tantissimo (ma ormai non ricordo nemmeno l’ultimo film con cui non l’ho fatto, l’altro giorno mi sono commosso con una pubblicità di una bambola che si fa la pipì addosso e va cambiata). Eppure sin dall’inizio si sa dove andrà a finire tutto: il figliastro rivaluterà la figura del padrastro, la triste e anziana madre non rivedrà il figlio che la evita e sceglierà una fine “dignitosa”, la polizia prenderà a manganellate chi normalmente prende a manganellate… e Rafa perderà quella macchina in cui si ostina a dimenticare le chiavi nel cruscotto.

Ma per quanto prevedibile nel suo svolgimento e didascalico nella sua descrizione delle problematiche sociali che affronta, En los márgenes è uno di quei film che hanno valore al di là dei meriti tecnici, che è giusto che esistano per presentare una parte della società che raramente viene raccontata. Certo, essendo un film esplicitamente politico, temo sia l’equivalente di film come Viva Zapatero! (2005) di Sabina Guzzanti: lo vedranno solo quelli che già sono d’accordo con il regista, e quelli di destra lo ignoreranno (o lo attaccheranno senza averlo visto, come una deputata di Vox che ha scritto un tweet sostenendo che il film sia un inno all’occupazione abusiva delle case).

Non so se En los márgenes troverà distribuzione in Italia, essendo così calato nella realtà spagnola, stato in cui negli ultimi dieci anni sono stati eseguiti 400mila sfratti (e ora si viaggia su una media di 110 al giorno), ma io ne consiglio la visione senza dubbio. Andate oltre ai difetti di una scrittura fin troppo lineare e esponetevi ad una realtà difficile come quella delle persone ai margini della nostra società. Ciao!



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