In the Heat of the Night: recensione del film

In the Heat of the Night (per l’Italia: La calda notte dell’ispettore Tibbs) è un film del 1967 diretto da Norman Jewison (che sei anni dopo diresse Jesus Christ Superstar) e scritto da Stirling Silliphant a partire da un romanzo di John Ball. Stiamo parlando di un film di una certa fama, in parte anche dovuta ai cinque premi Oscar che si portò a casa, tra cui quelli per miglior film, miglior attore protagonista per Rod Steiger, e miglior sceneggiatura non originale. Oggi scrivo di questo film perché nominato spesso come precursore di un intero genere, quello del buddy cop movie, ovvero film in cui i protagonisti sono due poliziotti molto diversi tra loro che però lavorano insieme per risolvere un caso.

Sparta, Mississippi. Viene trovato il corpo di un industriale appena arrivato in città per mettere in piedi una fabbrica con cui dare lavoro a decine di persone. La polizia locale capitanata da Bill Gillespie (Rod Steiger) prima arresta Tibbs, un detective di Philadelphia di passaggio alla stazione del treno (Sidney Poitier, scomparso il 6 gennaio di questo 2022), semplicemente perchè afroamericano. Poi arresta un ragazzo bianco trovato in possesso del denaro mancante dal borsello della vittima, senza capire che non può essere stato lui a compiere l’omicidio (è interpretato dal grandissimo Scott Wilson, allora venticinquenne!). E poi finalmente il capitano capisce di dover accettare l’aiuto di Tibbs, il cui intelletto vale da solo almeno dieci volte quello di tutto il corpo di polizia di Sparta.

C’è un problema: il Mississippi del 1967 è un posto dove nessuno accetta di buon grado la presenza di un afroamericano, figuriamoci se quello pretende pure di comandare! Di fatto, il film dedica molto più tempo al conflitto razziale che all’omicidio. Le indagini si limitano alle intuizioni di Tibbs, intervallate da numerosi confronti con gli ostili poliziotti bianchi e con l’altrettanto ostile popolazione locale bianca, incluso il proprietario dei campi di cotone Eric Endicott (Larry Gates). Tutti vanno fierissimi del loro razzismo, e la risposta di Tibbs è un ostinato silenzio rotto soltanto alcune volte da delle sbottate più che giustificate, come quando grida a Gillespie They call me Mr. Tibbs!” (Mi chiamano signor Tibbs!), o come quando restituisce uno schiaffo a Endicott (scena che Poitier insistette non poco per girare e per farla includere nella versione finale del film).

D’altronde stiamo parlando degli Stati Uniti in cui nel 1965 fu ucciso Malcolm X, e nel 1968 la stessa sorte toccò a Martin Luther King. Di fatto il film fu girato in Illinois su insistenza di Poitier che in una visita in Mississippi precedente al rodaggio del film era stato quasi ucciso da alcuni zelanti membri del Ku Klux Klan. E le poche scene girate in Tennessee (non si trovavano campi di cotone nel freddo Illinois) non furono una gita di piacere per Poitier, che ricevette minacce di morte e dormì tutte le notti con una pistola sotto il cuscino.

Ma torniamo al film, la cui bellezza sta tutta nelle interazioni tra Tibbs e Gillespie: il primo è granitico, sempre elegantissimo, chiuso nella sua superiorità in un mondo a lui completamente ostile, ma che non può lasciare per ordini del suo capo. Gillespie invece appare inizialmente calato alla perfezione in quel mondo, e nel suo primo incontro con Tibbs si comporta esattamente come gli altri bifolchi di Sparta. Però poi dimostra di essere sufficientemente intelligente da capire che Tibbs sia migliore di lui nel suo lavoro, e quindi accetta il suo aiuto e piano piano arriva a rispettarlo. Addirittura in una scena toccante si apre a lui confessando di non essere a suo agio nemmeno lui in quel postaccio in cui vive.

In un’ora e quaranta c’è tempo per conoscere alcuni personaggi fondamentali della cittadina, per seguire lo sviluppo delle indagini fino ad arrivare al colpevole, e anche per un paio di scene d’azione (niente di spettacolare per standard moderni, ma almeno una è decisamente tesa, con quattro zotici che tentano di far fuori Tibbs a sprangate). Il film è conosciuto come un classico e la sua fama è del tutto giustificata, fosse anche per godere di un Rod Steiger in formissima che brilla in ogni sua scena.

Tornando alla storia del buddy cop movie ante litteram… a me sembra un po’ tirata per i capelli. Chiaro, i protagonisti sono due poliziotti molto diversi tra loro, con l’intelligente e riflessivo afroamericano e il razzista bianco poco interessato al proprio lavoro. Ma il tono del film non ha niente di buddy, essendo decisamente serio e drammatico. Non c’è (quasi) ombra di umorismo, ingrediente fondamentale per film come Die Hard (Trappola di cristallo, 1988), Lethal Weapon (Arma letale, 1987), o 48 Hrs. (48 ore, 1982). Quindi sì, In the Heat of the Night può far pensare a film come quelli appena menzionati, ma secondo me ne è parecchio distante. Ciao!

PS: Comunque ci sono poche cose che mi fanno più paura della provincia statunitense, che sia nel Sud o nel Nord, negli anni Sessanta o adesso…



6 risposte a "In the Heat of the Night: recensione del film"

  1. Ci sarà un motivo se tutte le storie horror sono ambientate nella provincia americana 😛

    Scherzi a parte, è un film mitico che da ragazzo mi colpì fortissimo, visto sulla RAI (credo). In tempi recenti La7 si è comprata la serie TV che è nata dal film, dove continuano le indagini dei due “sbirri di differente colore”, ma ovviamente è molto meno incisiva del film, che invece è stata una bomba per l’epoca.

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  2. “C’è un problema: il Mississippi del 1967 è un posto dove nessuno accetta di buon grado la presenza di un afroamericano, figuriamoci se quello pretende pure di comandare! Di fatto, il film dedica molto più tempo al conflitto razziale che all’omicidio”

    so che gli intenti e la trama differiscono, ma mi ha ricordato molto Mississippi Burning

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