Cold Creek Manor: recensione del film

Cold Creek Manor (Oscure presenze a Cold Creek) è un film del 2003 scritto da Richard Jeffries e diretto da Mike Figgis. Ed è ache un film fuori tempo massimo, e uno di quelli con cui un regista interessante come Figgis ha inspiegabilmente deciso di chiudere una carriera che aveva attratto l’attenzione di molti con opere come Leaving Las Vegas (Via da Las Vegas, 1996) e One Night Stand (Complice la notte, 1997).

Cold Creek Manor arriva 12 anni dopo Cape Fear (Il promontorio della paura, 1991), remake dell’omonimo film del 1962, e fa le stesse cose, ma peggio, sprecando un cast tutt’altro che da buttar via.

In Cold Creek Manor, Cooper Tilson (Dennis Quaid) porta la sua famiglia a vivere in una casa isolata in campagna per fuggire dallo stress di New York. Trattasi di moglie Leah (Sharon Stone), figlia grande Kristen (una giovanissima Kristen Stewart), e figlio piccolo Jessie (Ryan Wilson).

La casa apparteneva alla famiglia Massie, e il giovane Dale (Stephen Dorff) si presenta un giorno direttamente in casa a curiosare tra le cose dei Tilson e della sua famiglia, visto che la casa è stata venduta ammobiliata e con oggetti personali abbandonati. Dale è appena uscito dal carcere e dal minuto uno si capisce che ha intenzioni pessime nei confronti dei Tilson, cosa che però loro tardano un bel po’ a capire a causa di una sceneggiatura scritta veramente male.

E il problema vero del film sta tutto lì: sin da subito è chiarissimo a noi spettatori cosa accadrà per le seguenti due ore, ma, appunto, dobbiamo sorbircele tutte prima di arrivare all’inevitavile epilogo. Spiace vedere praticamente inutilizzati, oltre alla Stone, anche Christopher Plummer nei panni del padre di Dale, e Juliette Lewis nei panni dell’amante di quest’ultimo (voglio pensare che non sia un caso che ci sia lei che era apparsa giovanissima nel Cape Fear di Scorsese). C’è pure Dana Eskelson nelle vesti dello sceriffo più inutile della storia degli sceriffi.

Il film non funziona non soltanto a causa della prevedibilità della trama, ma anche a causa della sua totale assenza di plausibilità. Per esempio, come è possibile che a Cooper non venga in mente di informare Dale di aver deciso di fare un documentario sulla famiglia di quest’ultimo? E nel caso abbia deciso di non farglielo sapere, non sarebbe una buona idea togliere dal tavolo e dalla parete le fotografie in cui appare Dale stesso?

E come è possibile che Leah non si renda conto della responsabilità di Dale dopo aver trovato un serpente velenoso in ogni stanza della casa? Pensa forse che sia una cosa normale in campagna? Mi ha ricordato i Simpson con l’aurora boreale in questo periodo dell’anno a quest’ora del giorno in questa zona del paese localizzata interamente nella cucina di Skinner

E che Dale riesca a incolpare Cooper per la morte del cavallo dopo che con la macchina ha investito un daino è un altro di quegli elementi di trama che non convince: presumibilmente il cavallo era nella stalla, non era così facile investirlo con l’auto in maniera casuale perché aveva bevuto un po’, no?

In pratica, guardando Cold Creek Manor è impossibile non farsi domande di continuo, senza mai arrivare alla sospensione dell’incredulità necessaria per sentirsi coinvolto nella storia. Storia che, come ho già scritto, non è minimamente originale. Da non recuperare, se lo chiedete a me, a meno che non siate curiosi di sapere come recitasse da giovanissima Kristen Stewart, naturalmente. Ciao! 


Link esterni:


6 risposte a "Cold Creek Manor: recensione del film"

  1. Il film l’ho visto più di quindici anni fa e ricordo solo che quel giorno era saltata la linea in casa, ero senza internet quindi soffrivo fisicamente. Pensavo che vedermi un film horror con attori famosi sarebbe stato un ottimo modo di distrarmi, invece poi scoprii che il titolo italiano (“Oscure presenze…”) era solo una truffa per mascherare un chiaro esempio di film “paga-bollette”. Così il dolore fisico si unì al fastidio psicologico della visione: da allora non ne serbo un buon ricordo 😛

    Piace a 1 persona

    1. Le bollette sono l’unica spiegazione per un finale di carriera così indecoroso per un regista che aveva dimostrato di saper fare ben altro in gioventù, effettivamente. E il titolo italiano è inspiegabile, ma si sa, i titolisti sono creature bieche che bramano il potere, come i controllori del’autobus.

      Piace a 1 persona

Lascia un commento