A Time to Kill: recensione del film

A Time to Kill (Il momento di uccidere) è un film del 1996 diretto da Joel Schumacher e basato sull’omonimo primo romanzo scritto da John Grisham. Non è un film facile di cui scrivere, ma ci proverò. Il cast è talmente eccezionale che è difficile capire da chi cominciare a parlare: ci sono Matthew McConaughey, Sandra Bullock, Samuel L. Jackson, Kevin Spacey, Donald e Kiefer Sutherland, più tutta una serie di classici attori secondari dell’epoca tipo Ashley Judd, Kurtwood Smith, Chris Cooper, Doug Hutchison… Aggiungiamo una regia ottima di Schumacher, una perfetta fotografia calda e umida di Peter Menzies Jr., e un montaggio impeccabile di William Steinkamp, e abbiamo tra le mani un film tecnicamente ineccepibile.

E questo vorrei sottolinearlo, perché A Time to Kill in due ore e venti fa quello che oggigiorno fa (e lo fa peggio) una serie in venti ore di episodi. Il film ha un miliardo di personaggi e tantissime sottotrame che si intrecciano tra di loro, e si seguono tutte benissimo, anche se è vero che qualcuna ha una risoluzione un po’ frettolosa o ha dei momenti poco credibili (possibile che nessuno veda Kiefer Sutherland cecchino con l’esercito schierato per le strade con duecento furgoni e blindati?).

Ma partiamo da un accenno di trama. Due giovani redneck (bifolchi) ubriachi (Nicky Katt e Doug Hutchison) rapiscono, violentano e tentano di uccidere una ragazzina afroamericana di dieci anni (RaéVen Kelly). Il padre di lei (Samuel Jackson) li uccide prima che cominci il loro processo. Il film si concentra quindi sul processo per omicidio ai suoi danni, con il giovane ed intelligente avvocato Jake Brigance (Matthew McConaughey) a difendere il padre della bimba (coadiuvato da una brillante studentessa, Sandra Bullock, e un amico avvocato, Oliver Platt). Al banco dell’accusa siede il cinico Kevin Spacey. Il caso diventa una questione razziale di portata nazionale in men che non si dica, con l’apparizione del Ku Klux Klan e vari morti e feriti in entrambi i lati del conflitto. 

Diciamolo subito: negli Stati Uniti un caso come questo avrebbe un solo finale. Condanna a morte per l’afroamericano, che ci fossero circostanze attenuanti o no (dallo stupro della figlioletta a una mancanza di sanità mentale al momento del duplice omicidio). Certo, se i colori fossero invertiti… Se un padre bianco avesse vendicato la figlia stuprata da due ragazzi afroamericani, sono pressoché certo che una giuria statunitense sarebbe propensa a perdonarlo e a farlo dichiarare innocente.

Ed è proprio su questo che si gioca tutto il film, visto che il contrapporsi di vari cavilli legali e il fronteggiarsi dei due avvocati portano ad una specie di stallo (o, anzi, un chiaro vantaggio a favore dell’accusa). E se ascoltiamo le parole di Kevin Spacey, andando oltre il fatto che il suo personaggio è costruito chiaramente per essere percepito come negativo, è lui ad avere ragione, probabilmente.

Possiamo forse permettere ai cittadini di farsi giustizia da soli a suon di colpi di M16? Possiamo provare a pensare cosa possa sentire un padre la cui figlia di dieci anni è stata devastata da due razzisti ubriaconi, anche a simpatizzare con lui forse, ma possiamo perdonare un omicidio? E se lo perdoniamo, dove sta il limite tra l’accettabile e l’inaccettabile? Che ce li abbiamo a fare polizia, avvocati e giudici, se poi permettiamo ai cittadini di farsi giustizia da sé?

Come detto, però, qui c’è la questione razziale. Già perché il padre della vittima dello stupro sa perfettamente che i due criminali bianchi sconterebbero una pena ridicola e poi tornerebbero a piede libero senza grossi problemi semplicemente perché bianchi e in uno stato del Sud degli Stati Uniti. E alla fine questo film è tristissimo non solo per ciò che si vede sullo schermo, ma per un senso di mancanza totale di giustizia in un sistema marcio fino al midollo.

L’unica cosa che conta è il colore della pelle. L’arringa finale di McConaughey lo chiarifica al 100%, in un paese dove le armi le vinci coi punti dei cereali della colazione, il problema non è usarle, ma il colore della pelle di chi le usa. È questa certezza che colpisce come un macigno nel finale del film.

Nel finale, Schumacher (insieme a Grisham) ci fa parteggiare per una persona che ha cercato giustizia in un sistema privo di giustizia. E l’ha fatto applicando la pena di morte, che viene pure discussa un paio di volte nel film grazie all’unico personaggio ad essa contrario, quello della Bullock che non a caso viene dalla liberale New York. Ed ecco perché mi sembra un film difficile di cui parlare, i temi che tratta includono razzismo, giustizia e pena di morte, e le risposte che sembra suggerire non sono in linea col mio pensiero al riguardo. Perché anche se posso pure io essere disgustato da un sistema così ingiusto nei confronti degli afroamericani, non credo che la risposta debba passare dall’imbracciare fucili automatici e dispensare morte a piacere. Ciao! 



14 risposte a "A Time to Kill: recensione del film"

  1. Un onesto thriller sulla scia della “Grisham-mania”che imperversava al cinema in quegli anni. Oggi il pubblico griderebbe capolavoro per un film del genere, nei novanta era uno dei tanti e questo accende una riflessione sullo stato attuale delle produzioni americane. Come hai scritto questo film in poco più di due ore porta sullo schermo un racconto che oggi verrebbe diluito in una serie tv da 8 episodi.

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    1. Ma infatti è incredibile come un film così ben fatto sia semplicemente “uno dei tanti” del periodo… era proprio un altro modo di fare cinema quello di trent’anni fa (parlando del cinema mainstream di Hollywood, naturalmente).

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  2. Sei stato più equilibrato di me nella recensione. Io devo dire che ho apprezzato molto il finale, anche se indubbiamente il messaggio che arriva è giustizialista. Sono quelle licenze poetiche che il buon cinema si può permettere, come l’adulterio de I ponti di Madison County, che tutti abbiamo perdonato, credo, al punto di dimenticarci che si trattava di un tradimento.

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    1. Hai fatto un ottimo parallelo con il film di Eastwood, effettivamente, ci sta tutto però qui il tema è secondo me più “alto” del tradimento matrimoniale, e per questo mi sono permesso qualche riflessione in più (leggendoci dei messaggi che magari i creatori del film non volevano nemmeno mandare). :–)

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  3. Un thriller da tribunale che si difende bene nel filone di quegli anni pieno di film del genere. In generale concordo con te sul finale ma penso che lo scopo del film (come del romanzo) alla fine fosse quello di emozionare e coinvolgere e non di fare la morale. Alla fine devono “vendere”. Oggi infatti, a venti o trent’anni di distanza, avendo visto di tutto, si cerca anche altro, con finali inaspettati e contrari al pensieri comune o messaggi più impegnati.

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    1. Si, si, il tuo pensiero è in linea col commento di Raffa in effetti. Siccome però la visione del film mi ha spinto a pensare ai temi che presenta, qualche dubbio ho voluto esplicitarlo nel post, mi sembrava giusto. :–)

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  4. Non lo rivedo da una vita ma ne ho ottimi ricordi, anche perché adoro il legal thriller come genere quindi i film da Grisham bene o male mi sono piaciuti tutti. (Non i romanzi, perché la prende troppo larga!!!)
    Sono d’accordo con te, quel tipo di cinema aveva un dono di sintesi, senza rovinare le sottotrame, oggi dimenticato e lasciato solo alle serie TV, che impiegano dieci stagioni a dire quello che bastava un’ora a dire! E’ un peccato si sia persa quell’arte di condensare.

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    1. Era un’ottima arte, che faceva sì che la durata media di un film fosse un’ora e quaranta invece delle due ore e passa odierne, e soprattutto ci regalava in media prodotti molto superiori a quelli che ci arrivano oggi…

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  5. Hai già detto tutto tu, e nei commenti: un film bellissimo che ti lascia con un sacco di amaro in bocca e un senso di ineluttabile ingiustizia sia perché ha vinto colui che si è fatto giustizia da solo sia perché è stata data giustizia a questa vittima mentre altre centinaia, che non avranno la fortuna di incontrare le persone giuste, rimarranno inascoltate e prove dei più basilari diritti. Come lo guardi è un secondo posto, un premio di consolazione.
    John Grisham ha saputo scrivere delle grandi storie, mia mamma aveva tutti i suoi libri e molti li ho letti anche io, e per fortuna il cinema ha saputo valorizzarne diversi con degli adattamento davvero all’altezza in quegli anni – penso ad esempio a Il Cliente, che in entrambe le versioni mi piace tantissimo, ma anche a Il Rapporto Pelican e, in misura minore, a Il Socio.

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