Eaten Alive: recensione del film

Eaten Alive (letteralmente Mangiati vivi, ma il titolo italiano è Quel motel vicino alla palude) fa sussultare già dalla prima battuta: My name’s Buck, and I’m here to fuck, pronunciata da Robert Englund, è infatti una frase che Quentin Tarantino ha messo in bocca al suo infermiere stupratore di Kill Bill Vol. 1 (2003) interpretato da Michael Bowen, per confermare quanto il regista di origini italiane ami pescare copiosamente dal cinema di genere degli anni Settanta, di cui è grande conoscitore ed estimatore.

E poi questo film del 1976 diretto da Tobe Hooper fa sussultare anche perché nel giro dei primi cinque minuti mostra due tentativi di stupro e un assassinio sanguinolento perpetrato con una forca. Così, per confermare che quel divieto ai minori di 18 anni non sia lì per caso. Ma d’altronde dal regista che due anni prima aveva firmato The Texas Chainsaw Massacre (Non aprite quella porta) non ci si poteva aspettare niente di diverso.

In questo film, vediamo cosa accade in un motel squallido di proprietà del folle Judd (Neville Brand), un motel spesso avvolto da un’innaturale nebbia rossa (Hooper e il suo direttore della fotografia Robert Caramico volevano omaggiare Bava, Argento, o chi altri?) che si trova sulla sponda di una palude infestata da coccodrilli. Ah, Judd è praticamente un Norman Bates (proprietario del motel di Psycho, 1960) sotto anfetamine, cosa che lo rende il perfetto protagonista di un film come Eaten Alive.

E di fatto il film è tutto qui: arrivano svariati avventori al motel, Judd li fa fuori uno ad uno, finché non arriva la final girl a porre fine al delirante impeto omicida di Judd (in questo caso sono tre le final girl, Crystin Sinclaire, Marilyn Burns e la giovanissima Kyle Richards che poi nel 1978 sarebbe apparsa in John Carpenter’s Halloween, Halloween – La notte delle streghe).

Pur non essendo memorabile come altri lavori di Tobe Hooper, ci sono vari spunti che rendono Eaten Alive interessante da vedere. Prima di tutto, l’ambientazione del bayou del sud degli Stati Uniti (Mississippi? Louisiana?) è sempre d’effetto, e il protagonista con le sue bandiere americane a fare bella mostra di sé sulle pareti di casa sua si sposa perfettamente con la location (viene in mente Southern Comfort (I guerrieri della palude silenziosa, 1981) di Walter Hill, per dire. 

Ancora una volta vediamo gli Stati Uniti lontani dalle grandi metropoli dove personaggi oscuri si dedicano ad attività orripilanti, e Judd sembra essere un ex soldato, sempre alla ricerca ossessiva della sua uniforme nei suoi farfugliamenti. La violenza genera soltanto ulteriore violenza, ed è inutile cercare un senso in tutto questo, questo sembra il messaggio che Hooper vuole mandarci. 

Poi, Hooper trasmette un senso di squallore unico cominciando la storia in un bordello e continuandola nello scalcinato motel degli orrori di Judd: il film trasuda violenza, sessualità repressa e odio in ogni scena, anche quando seguiamo personaggi che teoricamente dovrebbero stare insieme senza conflitti (penso ad Harvey, Mel Ferrer, il marito di Libby, per esempio). 

Volendo, l’unica vera critica che mi sento di muovere a Eaten Alive è che ripete l’esercizio del film precedente di Hooper, ma non ha la sua stessa forza, e quindi ci perde nel confronto. Tra l’altro è curioso leggere come Hooper abbia abbandonato la lavorazione del film prima della fine per conflitti con la produzione. Sarei curioso di sapere cosa sia successo, visto che il film mi sembra comunque frutto del suo lavoro al 100%.

Detto questo, il film è uno slasher di tutto rispetto, con un’atmosfera strana anche dovuta al fatto che nemmeno una scena sia stata girata in esterni, e fa ancora più paura quando si scopre che si basa a grandi linee sulla storia di Joe Ball, un serial killer del Texas che uccise molte ragazze negli anni Trenta del Novecento per dare in pasto i cadaveri al coccodrillo che teneva nel suo bar. Ciao! 

PS: una curiosità, nell’incredibile cast c’è pure Carolyn Jones, la storica Morticia Addams della serie andata in onda tra il 1964 e il 1966, nella parte della proprietaria del bordello Miss Hattie, deliziosamente sopra le righe in ogni sua scena. 


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12 risposte a "Eaten Alive: recensione del film"

  1. Sembra che ciò che più terrorizza gli americani già da molti decenni non siano i mostri, le guerre o i vampiri spaziali (!) ma piuttosto quello che possono trovare se sbagliano strada e si ritrovano in aperta campagna o in una palude nebbiosa… Credo che ci sia una interessante analisi socio-psicologica da fare sulle ambientazioni di questo genere di film.

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    1. Verissimo! Poi credo sia l’unico paese al mondo coi serial killer, e di fatto pure questo film è basato su uno di quelli. Sicuramente vedono più reali assassini folli della campagna del profondo sud che non i vampiri spaziali (che però sarebbero sicuramente più fighi)! :–D

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      1. Be’, se non è l’unico paese del mondo ad avere serial killer è quasi certamente quello che ne ha di più, e una mentalità non molto distante da quella dei padri pellegrini unita a un modello (a)sociale imperniato su competitività ossessiva, estremo individualismo nonché manichea e classista/razzista suddivisione fra “vincente” e “perdente” credo abbia il suo peso a riguardo…
        Sicuramente meno incisivo di “Non aprite quella porta”, pur riuscendo comunque a fare il suo dovete fino in fondo. Lo ricordo snche per il suo essere stato il mio primo “incontro” ufficiale con il buon Robert Englund, quando lo vidi in televisione circa una quarantina d’anni fa (quanto tempo è già passato, miseriaccia) 😉
        P.S. Anche il terribile Mick Taylor, protagonista della saga australiana di “Wolf Creek”, è ispirato alla figura del reale serial killer “aussie” Ivan Milat…

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          1. Credo proprio di no, ai tempi la censura sulle emittenti private non era così stringente (diciamo pure che era assente, via) come sarebbe stata negli anni successivi: pensa che persino “La Casa” di Raimi era passato in tv in prima serata e senza nessun taglio! Altri tempi, di sicuro…

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