Volver: recensione del film

volver-reviewEd eccomi alla seconda recensione di un film di Almodóvar dopo Todo sobre mi madre. Stavolta mi sono guardato Volver, del 2006, con un’altra volta un cast quasi tutto al femminile dove risaltano Penelope CruzLola Dueñas. M’è piaciuto? Diciamo che mi ha intrattenuto col suo ritmo inarrestabile dall’inizio alla fine, ma continuo ad avere delle riserve sul mondo almodovariano, che temo non essere proprio adatto ai miei gusti cinematografici. 

Di che tratta Volver? Volver significa tornare in spagnolo. In questo film tornare si può riferire a più cose. Principalmente, credo che si riferisca al passato a cui non si può sfuggire, un passato che, volenti o nolenti, torna a battere cassa nelle nostre vite anche se tentiamo di sfuggirgli. Passato che torna anche sotto forma di vite che si ripetono, con la violenza passata che riaffiora nel presente e guida le azioni delle nuove generazioni in maniera simile a quella delle generazioni precedenti. Ma si riferisce anche al tornare nei luoghi chiave delle vite dei protagonisti: il piccolo villaggio della Mancha lasciato dalle due sorelle Cruz e Dueñas dopo la gioventù per andare a vivere a Madrid, il cimitero dove sono sepolti i loro genitori, il fiume per il marito della Cruz (un bravo Antonio de la Torre, visto recentemente nell’interessante Tarde para la ira del 2016 e nel poco emozionante Abracadabra del 2017). E poi il tema ricorrente del tornare dall’Aldilà, con vari dialoghi su come i fantasmi di persone care possano tornare per cambiare il corso delle nostre vite.

Insomma, sono tanti i temi di questo film, non si può certo dire che Almodóvar non abbia pensato a cosa comunicare con la sua opera. Molto bella la rappresentazione del villaggio della Mancha con le vedove che curano il cimitero, il funerale partecipato da tutta la comunità, così chiusa da sembrare unita, ma in realtà con tutti pronti a trarre vantaggio dalle disgrazie altrui. E poi il film non ci risparmia lo sguardo sui più deboli della nostra società: non soltanto donne (anziane sole o adolescenti in contesti familiari difficili), ma lavoratrici precarie, immigrate senza permessi di soggiorno, prostitute…

Tutto questo è sicuramente la parte più interessante del film. Inoltre Almodóvar ci regala delle bellissime immagini, aiutato anche da una fotografia ben fatta e piena di colori, con un sacco di inquadrature fantasiose per animare anche le azioni più banali, come il tagliare dei peperoni in una cucina o caricare un frigo su un furgone (il regista si è divertito un sacco con le inquadrature dall’alto verso il basso).

Ma… c’è un ma. Sì, perché anche se sin dall’inizio sappiamo che il villaggio natale di quasi tutti i protagonisti del film è il posto con la percentuale più alta di tutta Spagna di malati mentali (a causa del forte vento che sempre vi soffia, si dice), succedono tante di quelle cose che non hanno senso che mi sono domandato troppe volte “ma che sta succedendo?”. E lo so che devo accettare tutto questo perché il mondo almodovariano è un mondo a parte, un po’ come il mondo tarantiniano dove si può fare un viaggio in aereo portandosi una katana come bagaglio a mano.

Ma… e qui partono gli spoiler… Come fa una signora di una certa età a vivere per tre anni e mezzo nascosta in una casa senza mai uscire? Come fa a sparire un uomo senza che nessuno lo cerchi nemmeno per sbaglio? Perché Penelope Cruz all’improvviso comincia a lavorare nel ristorante (chiuso) sotto casa, visto che aveva già un lavoro? Perché al riapparire della madre creduta morta la prima domanda non è “com’è possibile che tu sia qui, ma non eri morta?”, ma “Allora dormi nella stanza degli ospiti?”? E via così…

Insomma, anche qui lo spettatore deve accettare di vedere un mondo alternativo al reale dove succedono cose inaccettabili nel mondo reale. Questo è un problema? Come sempre con la suspension of disbelief, lo è se solo se distrae da cosa succede sullo schermo. L’accento di Almodóvar è sulle relazioni interpersonali, non sulla storia, e questo aiuta il film che, come detto, ha un ritmo incredibile e funziona proprio per questo. Però molte volte mi sono trovato a domandarmi a voce alta “Perché? Perché sta succedendo questo?”, e ciò non mi ha aiutato ad apprezzare del tutto il film.

Forse guardare il film sapendo di entrare nel particolare mondo almodovariano aiuta. Volver funziona sotto vari aspetti, ha un sacco di messaggi interessanti e sviluppa tanti temi in maniera anche profonda. Ma per me rimangono tutti quei “ma” di cui sopra… Ciao!

PS: mi sono visto anche La piel que habito (2011), Mujeres al borde de un ataque de nervios (1988) e Dolor y gloria (2019)!


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15 risposte a "Volver: recensione del film"

  1. Ciao! Almodóvar è uno dei miei registi preferiti (e “Volver” uno dei film che amo di più in assoluto), ma capisco perfettamente che lo si ama o lo si odia, esattamente come con Woody Allen (altro regista che adoro). Anche io mi sono avvicinata alla sua filmografia con “Tutto su mia madre” però probabilmente l’immaginario almodovariano era già nelle mie corde, tanto che non mi sono mai posta le tue stesse domande. Ammetto però che non tutti i suoi film mi piacciono e alcuni non sono esenti da difetti. Bella recensione comunque 🙂

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    1. Il tuo amore per la Spagna non poteva non riflettersi su un amore per il cinema di Almodóvar! :–)

      Io riconosco che è un autore il cui stile è immediatamente riconoscibile, cosa lodevole, però evidentemente è uno stile che non incontra i miei gusti (mentre incontra i gusti della maggioranza delle persone che conosco)…

      Ti ringrazio per essere passata di qui e per il tuo commento!

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